“Keren si trovava all’estremità di una valle a forma di lacrima. Le montagne svettavano nel cielo, azzurre come l’acciaio alla chiara luce del sole, e cingevano la città come una barriera di lance.
“Cosa significa “Keren”?” chiesi a un locale mentre scendevo dall’autobus.
“Montagna” disse.
Geograficamente Keren si trovava nel cuore dell’Eritrea. A valle eri nell’Arabia tigré, a monte c’erano i cristiani, gli altopiani tigrini. Il pezzo di terra fertile al centro era di etnia bilana.
Le strade della città erano bordate di filari di alberi e alla loro ombra gli uomini impolverati con i copricapo bianchi, mento appuntito e pizzetto sedevano sul ciglio della strada a sorbire tè. I loro occhi erano severi e scuri come le unghie delle dita. I cammelli arrancavano lentamente lungo la strada mentre le gambe oscillavano sotto le loro groppe.
(…) La strada che serpeggiava da Asmara a Keren era costeggiata da due lunghe file di case. Erano tutte a un piano, bianche e con delle persiane orizzontali di legno che coprivano le finestre. Le case invadevano ambo i lati del viale caldo e occupavano una metà dell’asfalto, quasi sgomitassero per farsi spazio. Erano i bordelli.
(…) Ho trascorso la prima settimana presso il “Keren Hotel” e, intanto, mi cercavo una casa. Ne trovai una in una strada alle spalle dei bordelli e mi ci sono trasferito un martedì mattina. La casa risaliva al periodo degli italiani. Lo si deduceva dalla qualità della costruzione. Gli edifici che stavano costruendo erano scatole di cemento con una porta di metallo e persiane di metallo alle finestre. Questa casa, invece, era di un’altra generazione. Aveva un ampio cortile impolverato cinto da un muro bianco, sufficientemente alto per tenere fuori le capre e i bambini, ma non i gatti che vivevano sui tetti; e passavano da un complesso all’altro lungo le “passerelle” offerte dai cavi dell’alta tensione sui muri divisori, raccolti in bande in guerra.
La mia casa era una costruzione buona e solida, come lo erano tutte le case a Gezawara’hat. Gezawara’hat significava, letteralmente, “case di carta”, per un motivo facilmente intuibile. (…) Qualsiasi fosse la ragione, la mia casa non era fatta di carta, ma di solidi blocchi di pietra locale e di una tettoia in lamiera che pendeva in tutte le direzioni. E le pareti color polvere non avrebbero mai dato l’impressione di essere sporche. I pavimenti interni erano di piastrelle rosse e nere e i miei infissi avevano il vetro.”
(…) Usciti dal centro di Keren, le strade non erano illuminate, quindi la gente faceva il percorso a memoria oppure affidandosi al chiaro di luna. Per tornare a casa dovevo attraversare il letto del fiume in secca e passare in mezzo ai bordelli. Durante il giorno, mentre entravo nella città, le prostitute erano solite sedersi in abiti discinti con stringhe d’oro legate intorno alla fronte. L’oro era l’unica forma di consolazione rispetto alla brutalità della notte.
(…) Da lontano la città di Keren sembrava un set cinematografico per un film sulla Bibbia, un piccolo agglomerato di case a un piano con il tetto piatto, abbacinate sotto la luce del sole, che si stringono alla ricerca di una zona d’ombra intorno a un dirupo con un forte sulla cima. (…) C’erano minareti e volte, ville italiane di fronte a strade addormentate, e un perimetro di tukul locali rotondi con cappelli conici di paglia.
Al centro della città il terreno s’inerpicava e in cima al dirupo roccioso c’erano i ruderi di un forte che ora era la base della forza di difesa eritrea della zona. (…) Il forte e il dirupo c’erano da quando esisteva la città di Keren. Il forte era probabilmente l’unica ragione dell’esistenza di Keren. In questo modo, come molte città, Keren era nata dal bisogno di protezione.
(…) L’estate in cui arrivai a Keren, le piogge finirono quando le colture erano a metà del ciclo vitale. Le colture si avvizzirono fino a diventare fragili stecchi nel terreno e poi tornarono nuovamente le piogge. Il grano era ormai irrecuperabile e il popolo vedeva le proprie speranze svanire in rivoli marroni di terreno superficiale, un diluvio che si abbatté su di loro come la collera di Dio. Le piogge devastanti continuarono anche nel mese di settembre e perfino in ottobre, e le conversazioni nel souk dicevano che assomigliava al principio dell’Armageddon. C’era un che di paradossale nella situazione: un popolo che riusciva a sopportare trent’anni di guerra inflitta dagli umani non riusciva a capire un disastro naturale.
Da “Ciao Asmara” di Justin Hill ( traduzione di Catia Lattanzi), FBE Edizioni, 2005, pagg.47-62