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  • : Urban Pvs esperienze urbane in paesi in via di sviluppo Come sono le città nei Paesi del Terzo Mondo? Come sono organizzate? Quali sono le problematiche? Come vengono affrontate? Questo blog vuole essere uno spazio dedicato a quanti si occupano e si interessano dei problemi urbani e sociali nei paesi in via di sviluppo.
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Come sono le città nei Paesi del Terzo Mondo? Come sono organizzate?

Quali sono le problematiche? Come vengono affrontate?
Questo blog vuole essere uno spazio dedicato a quanti si occupano e si interessano dei problemi urbani e sociali nei paesi in via di sviluppo.


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12 gennaio 2015 1 12 /01 /gennaio /2015 14:48

Alla Triennale di Milano l'Africa è andata in mostra con "ig Change Big Chance"!

Il “contesto planetario” sta cambiando a causa della scarsità di risorse fossili, ormai in accertato esaurimento, della pressione antropica, oggi dotata di una immensa potenzialità tecnica, della situazione demografica, in impetuoso aumento, dell’incremento dell’urbanizzazione, della globalizzazione dell’economia ed anche del pensiero.

Occuparsi dell’Africa dal punto di vista dell’architettura, intesa nel suo senso più ampio, significa occuparsi di un luogo in cui stanno sviluppandosi alcuni dei fenomeni più interessanti, complessi ed anche inquietanti di questi ultimi anni.

La mostra, a cura di Benno Albrecht, AFRICA Big Change Big Chance vuole rendere palesi le dinamiche delle grandi trasformazioni in corso in Africa.

Il cambiamento – Change – riguarda in particolare i fenomeni di concentrazione urbana. Nel 2030 anche le regioni che oggi hanno il minor tasso di urbanizzazione saranno a maggioranza con una popolazione residente nella città. Nel 2030 la popolazione urbana dell’Africa, 748 milioni, supererà popolazione complessiva dell’Europa, 685 milioni.

La possibilità – Chance – è invece impersonata dai protagonisti dell’architettura in Africa dal Dopoguerra ad oggi. Sono loro gli interpreti di una progettualità nuova, che non guarda più solo alla tecnica e all’estetica, ma prova a riflettere su altri modelli di urbanistica.

Tra loro ci sono diversi esponenti del Modernismo Tropicale e alcuni italiani come Arturo Mezzedimi e Luigi Moretti.
L’esposizione è suddivisa in cinque sezioni: Geografia della quantità, Architetture Continentali, Architetture della Modernità, Città della Globalità, Apparati. Ognuna indaga e racconta i casi più interessanti di trasformazione geografica, urbanistica sociale.

Tra le città ritratte, Nairobi, Lagos, Maputo e Il Cairo sono quelle che, ad oggi, hanno vissuto le trasformazioni più radicali.
In mostra non saranno esposte solo fotografie, ma anche riproduzioni di progetti, modelli in 3D e opere di artisti locali. Per raccontare tutta l’Africa che cambia e che verrà.

http://www.triennale.org/it/mostre/passate/3292-africa-big#.VLPPn8kg_KA

 

il video dell'inaugurazione: https://www.youtube.com/watch?v=pkjN7czPuCQ

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8 febbraio 2014 6 08 /02 /febbraio /2014 09:35

GERUSALEMME-Gerusalemme è il cuore del conflitto israelo-palestinese? O forse parlare di una «Gerusalemme Est» e di una «Gerusalemme Ovest» non ha più senso, dal momento che Israele pare aver definitivamente «annesso» l’altra metà? Secondo alcuni osservatori, il governo del territorio rappresenta una delle armi principali di una guerra «a bassa intensità» con cui ciascuna parte cercherebbe di consolidare la propria superiorità demografica e influenzare le opzioni in gioco, in vista dei negoziati finali. Si può dunque parlare di una città «normale»? In un contesto etnicamente e geopoliticamente diviso è possibile pensare a forme di convivenza tra comunità, che ne assicurino la coesistenza, il governo e lo sviluppo, traghettando Gerusalemme nel XXI secolo? In questa raccolta di saggi, alcuni tra i più illustri architetti, artisti e storici esperti di Medio Oriente spiegano come la regolare coabitazione tra i diversi gruppi all’interno della «Città Santa» rappresenti un effettivo strumento di tutela delle loro reciproche ragioni e dei loro diritti e quindi una concreta possibilità di pace durevole.

 

E' il libro curato da Claudia De Martino con Moni Ovadia, francesco Chiodelli, Enzo Maria Le Fevre Cervini, Enrico Molinaro, Ruba Saleh, Carmelo Severino, Alessandra Terenzi, Luca Zevi, pubblicato da Castelvecchi Editore (2013).

 

Prossima presentazione presso Biblioteca Amilcar Cabral, via San Mamolo 24, Bologna

Lunedì 10 febbraio 2014, ore 17

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17 dicembre 2013 2 17 /12 /dicembre /2013 15:50

Sono stati ultimati lo scorso ottobre i lavori, iniziati nel 2008, del parco eolico più grande dell’Africa e finalmente tutte le pale sono in funzione. Costruita ad Ashegoda (ETIOPIA) la centrale non ha disatteso le promesse e grazie ai 120 MW di capacità istallata, fornita da ben 84 turbine, sarà in grado di produrre in un anno ben 400 GWh di energia elettrica facendo risparmiare al paese ben 300mila tonnellate di anidride carbonica altrimenti prodotta per ottener energia da fonti fossili. L’impianto lavorando a pieno regime sarà in grado di fornire elettricità a circa un milione di persone ogni anno, abbassando la percentuale di inquinanti rilasciata in atmosfera e quindi contribuendo alla lotta contro il cambiamento climatico, di cui l’Africa soffre particolarmente le conseguenze.

Eolico Etiopia

 

“L’Etiopia potrebbe avere uno dei più imponenti piani di investimento nelle energie rinnovabili in Africa”, ha detto Roman Coutrot, responsabile di cantiere per l’impresa francese Vergnet SA, che ha costruito il complesso. Il potenziale energetico green del paese è ritenuto infatti uno dei più elevati del continente, soprattutto se viene presa in esame la fonte eolica, che da sola potrebbe offrire un valido contributo alle necessità della popolazione in crescita.

Ashegoda-Wind-Farm-Vergnet-569x380

 

Grazie all’impianto l’Etiopia oltre che produttore di energia verde potrà diventare un esportatore avvicinandosi così all’obiettivo che punta ad istallare entro i prossimi 5 anni 800 MW di capacità eolica e 10 GW di potenza rinnovabile totale. Il parco eolico aiuterà l'Etiopia a diversificare la produzione di elettricità e a diventare un grande esportatore regionale di energia. Gli ambiziosi obiettivi etiopi puntano a produrre 800 MW di capacità eolica e 10.000 MW di capacità totale di energia nei prossimi 3-5 anni.

 

Effettivamente il settore delle cosiddette “energie alternative” riveste un’importanza strategica per il continente africano, che per mezzo di un opportuno sfruttamento delle fonti rinnovabili potrebbe emanciparsi dalla sua dipendenza energetica, da sempre uno tra gli ostacoli principali al suo sviluppo. Allo stesso modo, il ricorso alle tecnologie verdi potrebbe rappresentare un’importante opportunità di crescita economica, diretta a favorire gli investimenti interni e ad attrarre quelli internazionali.

 

fonti: http://www.rinnovabili.it e http://afrofocus.com

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17 maggio 2012 4 17 /05 /maggio /2012 08:26

Il triplice patrimonio culturale, oltre alle componenti islamiche e cristiane, si completa con gli aspetti tradizionali della cultura africana, che affondano le loro radici nel culto degli antenati. Il culto degli antenati crede nella vita dopo la morte e l'onnipresenza degli antenati come esseri divini e mediatori tra l'umanità e l'essere supremo, il Dio universale che solo governa l'universo con tutti i suoi poteri.  Questa credenza nel mondo dello spirito non nega la credenza in un Essere Supremo. Ad esempio, gli Ashanti del Ghana hanno cerimonie religiose che invocano gli spiriti vari intermediari degli antenati ma pur sempre riconoscevano e veneravano un Essere Supremo che è al di sopra di tutte le divinità e le anima tutte. Questa visione, molto simile al più recente concetto di monoteismo, gli Ashanti l’hanno presa con loro dall'Egitto e dal resto della Valle del Nilo, il cui culto si è diffuso in tutto il continente. Infatti il culto del Re, come il Figlio del dio Sole tra gli Akan (Ghana) è evidentemente derivato dal Medio Regno in quanto il loro dio Sole Nyankopon ha tutte le caratteristiche di Amon-Ra di Tebe. E’ stato inoltre dimostrato che i nomi della maggior parte delle divinità Yoruba sono sopravvivenze dei nomi delle divinità egizie.

 
Concludendo, gli Africani non vedono alcuna contraddizione nel triangolo del triplice patrimonio culturale: essi hanno adottato ed adattato queste tre differenti culture pragmaticamente in tutti gli aspetti della loro vita in diversa misura a seconda che abbiano vissuto all'interno di una società prevalentemente cristiana, musulmana, o tradizionale. Ad esempio, alcuni mausolei che si trovano nella parte orientale della Costa D’Avorio incorporano la simbologia cristiana, quella giudaica, quella islamica, e quella ancestrale. E' interessante notare che questi mausolei sono stati progettati e costruiti da artigiani locali che non hanno ricevuto una formale formazione architettonica, ma avevano radicati i significati della croce, degli angeli santi del cristianesimo, della stella e della mezzaluna, e degli antenati ai quali dedicavano la tomba e i quali pregavano per ottenere protezione e guida. La questione fondamentale è che il triplice patrimonio africano è una realtà culturale che influenza la vita degli africani e costituisce la base per comprendere l'architettura africana.


Fonte: Nnamdi Elleh, AFRICAN ARCHITECTURE, Evolution and transformation”, McGraw-Hill, 1997

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17 maggio 2012 4 17 /05 /maggio /2012 08:21

Con l'introduzione nel continente africano delle culture straniere dell’islam e del cristianesimo ( La storia dell’architettura africana e il concetto di triplice patrimonio culturale )la triplice influenza culturale diventa evidente: il carattere delle città dell'Africa meridionale riflette contemporaneamente la presenza di una cultura indigena africana, di una cultura islamica, e dell'occidentalizzazione ed è spesso segnata da città geometriche che sono molto diverse dalle città indigene.

 
città e triplice patrimonioSulla base di documenti storici è possibile stabilire che il filo semita della cultura africana del triplice patrimonio culturale inizia con la migrazione di Abramo e del suo popolo in Egitto (circa 1640-1230 AC) e con la loro inclusione nella società egiziana e nella vita di Corte. Questo matrimonio antico tra l'Africa e gli israeliani lascia molte tracce culturali evidenti che si manifestano sia nell’architettura che nella religione. I falasha (gli ebrei etiopi) dell'Etiopia, che discendono da re Salomone e dalla regina di Saba, sono un esempio della lunga storia di scambio culturale e intellettuale tra il cristianesimo-giudaico e l'Africa: le due religioni, il cristianesimo e l’ebraismo, si sono miscelate in maniera pressoché sconosciuta altrove nella cristianità generando il cristianesimo copto.
La distruzione dell'antica religione africana in Egitto è stata condotta, in nome del cristianesimo, dai cristiani bizantini che ritenevano la religione egiziana pagana e idolatra e consideravano i giganti templi antichi d'Egitto come minacce per la loro fede, per cui eressero un monastero cristiano nel tempio di Amon a Luxor (link) utilizzando le pietre del tempio antico.

 Alla eccessiva corruzione  e libertà della nuova fede cristiana il Profeta Maometto preferendo la legge di Mosè, ha basato i dettami dell’Islam sul Vecchio Testamento. Egli fece costruire la moschea Hagag sostituendo il monastero nel tempio di Amon, completando così il triangolo culturale africano: un tempio africano indigeno dedicato al dio del sole ospita un monastero giudaico-cristiano, che poi diventa le fondamenta di una moschea per il culto islamico. tempio di Luxor

E' importante ricordare che il cristianesimo moderno in Africa è in gran parte un prodotto dei missionari europei del 19° e del 20° secolo, ad eccezione dell’Etiopia, dove il cristianesimo, giunge anticamente subito dopo la morte di Cristo.

Un esempio di influenza islamica nel disegno della città si può notare nelle rovine del villaggio di songo Mnara, in tanzania (link).


Fonte: Nnamdi Elleh, AFRICAN ARCHITECTURE, Evolution and transformation”, McGraw-Hill, 1997

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9 maggio 2012 3 09 /05 /maggio /2012 12:23

Gli studiosi di tutto il mondo stanno cominciando a guardare con interesse all'architettura africana, ma è difficile parlare di “architettura africana” e le pubblicazioni sono in continuo conflitto tra loro in quanto la stessa è la particolare combinazione e la locale interpretazione di differenti culture.
Il concetto del “triplice patrimonio culturale africano” del Professor Ali Mazrui, tuttavia, è abbastanza completo per fornire le basi per gli studi dell’architettura africana. Il suo concetto abbraccia tutte le componenti che formano la storia africana: indigena, islamica e occidentale. L’architettura africana, dai tempi antichi ad oggi, rispecchia questi lasciti triplo-culturali e non può essere capita senza questa comprensione. Questo triplice patrimonio culturale è radicato nella mente conscia e inconscia del popolo africano e si manifesta nell'arte, nella musica, nelle cerimonie religiose, nella politica e nell’architettura.  Gli africani sono culturalmente immersi in queste tre identiche, ma separate, culture che a volte sono difficili da distinguere: africana indigena, islamico e giudaico-cristiana.

triplice patrimonio culturale copyL’origine di questo triplice patrimonio culturale può essere ricondotta nei primi insediamenti in Africa.
Lo sviluppo dell'agricoltura in tutta la Valle del Nilo ha ivi comportato anche la creazione di insediamenti urbani, la maggior parte dei quali si sono formati come agglomerati di case attorno alla capanna del capo tribù (un esempio sono i villaggi Tswana in Botswana, link ), ai totem tribali e ai santuari, come si può notare in varie parti dell'Africa odierna. Complessivamente, l'Africa presenta una varietà di paesaggio urbano. Si devono osservare l’esistenza di città antiche come l’antica Benin, in Nigeria, e le affascinanti città geometricamente pianificate dei regni imperiali del Bacino del Congo. La maggior parte delle capitali del bacino del Congo è stata trasferita nel tempo, seguendo gli spostamenti derivanti dalle pratiche agricole, ma le nuove capitali venivano costruite rispettando fedelmente la pianificazione della città precedente. E’ il caso della capitale Kuba (Congo), della quale è stato rinvenuto che le successive ricostruzioni della capitale trasferita rispettavano precisamente le misure di ogni strada, il posizionamento di ogni edificio pubblico all'interno o all'esterno del palazzo, di ogni piazza, di ogni compound privato.
Nell’Africa meridionale sono esistite numerose città murate, fondate come sedi dei governi o anche come presidi militari, che mostrano caratteristiche simili ad analoghi agglomerati urbani difensivi dell'Africa centrale, dell’Africa orientale e di quella occidentale.


Fonte: Nnamdi Elleh, AFRICAN ARCHITECTURE, Evolution and transformation”, McGraw-Hill, 1997

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25 novembre 2011 5 25 /11 /novembre /2011 22:29

“Keren si trovava all’estremità di una valle a forma di lacrima. Le montagne svettavano nel cielo, azzurre come l’acciaio alla chiara luce del sole, e cingevano la città come una barriera di lance.

“Cosa significa “Keren”?” chiesi a un locale mentre scendevo dall’autobus.

“Montagna” disse.

Geograficamente Keren si trovava nel cuore dell’Eritrea. A valle eri nell’Arabia tigré, a monte c’erano i cristiani, gli altopiani tigrini. Il pezzo di terra fertile al centro era di etnia bilana.

Le strade della città erano bordate di filari di alberi e alla loro ombra gli uomini impolverati con i copricapo bianchi, mento appuntito e pizzetto sedevano sul ciglio della strada a sorbire tè. I loro occhi erano severi e scuri come le unghie delle dita. I cammelli arrancavano lentamente lungo la strada mentre le gambe oscillavano sotto le loro groppe.

 (…) La strada che serpeggiava da Asmara a Keren era costeggiata da due lunghe file di case. Erano tutte a un piano, bianche e con delle persiane orizzontali di legno che coprivano le finestre. Le case invadevano ambo i lati del viale caldo e occupavano una metà dell’asfalto, quasi sgomitassero per farsi spazio. Erano i bordelli.

 

(…) Ho trascorso la prima settimana presso il “Keren Hotel” e, intanto, mi cercavo una casa. Ne trovai una in una strada alle spalle dei bordelli e mi ci sono trasferito un martedì mattina. La casa risaliva al periodo degli italiani. Lo si deduceva dalla qualità della costruzione. Gli edifici che stavano costruendo erano scatole di cemento con una porta di metallo e persiane di metallo alle finestre. Questa casa, invece, era di un’altra generazione. Aveva un ampio cortile impolverato cinto da un  muro bianco, sufficientemente alto per tenere fuori le capre e i bambini, ma non i gatti che vivevano sui tetti; e passavano da un complesso all’altro lungo le “passerelle” offerte dai cavi dell’alta tensione sui muri divisori, raccolti in bande in guerra.

La mia casa era una costruzione buona e solida, come lo erano tutte le case a Gezawara’hat. Gezawara’hat significava, letteralmente, “case di carta”, per un motivo facilmente intuibile. (…) Qualsiasi fosse la ragione, la mia casa non era fatta di carta, ma di solidi blocchi di pietra locale e di una tettoia in lamiera che pendeva in tutte le direzioni. E le pareti color polvere non avrebbero mai dato l’impressione di essere sporche. I pavimenti interni erano di piastrelle rosse e nere e i miei infissi avevano il vetro.”

 

(…) Usciti dal centro di Keren, le strade non erano illuminate, quindi la gente faceva il percorso a memoria oppure affidandosi al chiaro di luna. Per tornare a casa dovevo attraversare il letto del fiume in secca e passare in mezzo ai bordelli. Durante il giorno, mentre entravo nella città, le prostitute erano solite sedersi in abiti discinti con stringhe d’oro legate intorno alla fronte. L’oro era l’unica forma di consolazione rispetto alla brutalità della notte.

 

(…) Da lontano la città di Keren sembrava un set cinematografico per un film sulla Bibbia, un piccolo agglomerato di case a un piano con il tetto piatto, abbacinate sotto la luce del sole, che si stringono alla ricerca di una zona d’ombra intorno a un dirupo con un forte sulla cima. (…) C’erano minareti e volte, ville italiane di fronte a strade addormentate, e un perimetro di tukul locali rotondi con cappelli conici di paglia.

Al centro della città il terreno s’inerpicava e in cima al dirupo roccioso c’erano i ruderi di un forte che ora era la base della forza di difesa eritrea della zona. (…) Il forte e il dirupo c’erano da quando esisteva la città di Keren. Il forte era probabilmente l’unica ragione dell’esistenza di Keren. In questo modo, come molte città, Keren era nata dal bisogno di protezione.

 

(…) L’estate in cui arrivai a Keren, le piogge finirono quando le colture erano a metà del ciclo vitale. Le colture si avvizzirono fino a diventare fragili stecchi nel terreno e poi tornarono nuovamente le piogge. Il grano era ormai irrecuperabile e il popolo vedeva le proprie speranze svanire in rivoli marroni di terreno superficiale, un diluvio che si abbatté su di loro come la collera di Dio. Le piogge devastanti continuarono anche nel mese di settembre e perfino in ottobre, e le conversazioni nel souk dicevano che assomigliava al principio dell’Armageddon. C’era un che di paradossale nella situazione: un popolo che riusciva a sopportare trent’anni di guerra inflitta dagli umani non riusciva a capire un disastro naturale.

Da “Ciao Asmara” di Justin Hill ( traduzione di Catia Lattanzi), FBE Edizioni, 2005, pagg.47-62

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21 settembre 2011 3 21 /09 /settembre /2011 16:01

“La città di Massaua è costruita su una coppia di isole nel Mar Rosso. Le sue origini sono sepolte nella preistoria, un’epoca buia che colma il divario tra la geologia e la storia, tra il Pliocene e le testimonianze scritte. La popolazione probabilmente è vissuta qui fin da prima che gli umani fossero veramente umani. La storia della città è lunga quanto la storia stessa. Era perfino un porto prima dell’ascesa degli Egizi dal volto rasato o dai Mesopotami con la barba folta.

(…) Geograficamente la città era collocata a un crocevia tra il Mediterraneo, le lunghe coste dell’Africa e dell’India. Nel corso del tempo diventò un crogiolo di culture, grazie a commercianti che portavano con sé le loro divinità, pantheon costruiti intorno a dei come Zeus, Mithras, Krishna, e gli Ebrei monoteisti con il loro unico Dio Jahvè. (…) Quando l’intera costa orientale dell’Africa era dominata dagli sceicchi e dagli emiri, Massaua venne chiamata la “Perla” del Mar Rosso. Le sue banchine erano bordate di dhow e l’appello del muezzin poteva essere ascoltato anche dai pescatori in alto mare. Nei suoi giorni di gloria fu la terra delle mille e una notte: passeggiare in mezzo ai suoi souk era come passeggiare tra i versi di una poesia. All’epoca, prima degli italiani, faceva parte della dinamica comunità di mercanti che commerciavano con gli arabi del Golfo, il mediterraneo e il Mar Nero, l’India e l’Africa Orientale. La dominazione di questi commercianti musulmani isolò gli altopiani dell’Etiopia e dell’Eritrea dal mondo cristiano per secoli, durante i quali Massaua presidiava con fierezza le onde del Mar Rosso, con l’Africa a fare da sfondo.

Ora i tempi sono cambiati. I suoi edifici sono ruderi. La sua mescolanza etnica, unica nel suo genere, è svanita. I profughi degli altopiani hanno occupato i ruderi. Per la prima volta nell’arco di un millennio, Massaua non è assoggettata a un governo dell’entroterra.

(…) Mentre attraversiamo i sobborghi in prossimità della costa sulla terraferma, gli edifici che ci circondano sono una brutta copia degli antichi splendori. Le case e le moschee erano ridotte praticamente a nulla. La strada era costeggiata di rovine e ogni parete era butterata pesantemente come se un virus purulento avesse fatto scempio del tessuto urbano.

A dispetto della disperazione sopravviveva la speranza. Ai margini della città un’insegna verniciata da poco spiccava in mezzo alle macerie. L’insegna era in bianco e nero con delle lettere rosse e violacee che dicevano “Coca-Cola ti dà il benvenuto a Massaua”.”

Da “Ciao Asmara” di Justin Hill ( traduzione di Catia Lattanzi), FBE Edizioni, 2005, pagg.89-91

 

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16 agosto 2011 2 16 /08 /agosto /2011 16:06

L'Eritrea venne fondata con decreto imperiale il 1 gennaio 1890 da Umberto I. L'influenza italiana fu chiara fin dal momento in cui lo scassato taxi giallo entrò scoppiettando in città.

"E' bella" dissi al tassista, un uomo anziano con i capelli brizzolati perfino più vecchio del suo catorcio di macchina, mentre ammiravo la capitale mondiale dell'Art Déco.

"Dagli anni Trenta non hanno più costruito nulla" borbottò con la sua bocca sdentata. Gli anni Trenta erano il periodo fascista, quando gli investimenti nella colonia come base per un'ulteriore espansione erano al massimo.

"Parlare italiano?" chiese l'uomo.

"No" gli dissi.

"Il mio inglese è pessimo" disse voltandosi per sottolineare quell'affermazione. I suoi occhi erano particolarmente vivaci sotto le sopracciglia bianche. "Italiano - bene!".

Gli ho dato il nome dell'albergo mentre mi scorazzava lungo le strade deserte circondate da edifici bianchi di cemento bianco. Dalle finestre e dai balconi chiusi pendevano i panni ad asciugare.

Le insegne non erano state toccate da prima della guerra. Parlavano ancora delle aspirazioni dei coloni italiani: Bar Diana, Ristorante Milano, Pizza Napoli, Cinema Impero, Bar Royal, Oden, la cattedrale dei Cappuccini e il convento adiacente. La strada principale era un viale ombreggiato di palme che ricordava molto le città del meridione d'Italia. Nel corso degli anni si sono succeduti tanti nomi. Ora la chiamavano Liberation Avenue.

"Gli italiani lo chiamano via Comistato" mi disse l'autista

"E gli etiopi?".

Innescò la seconda e la macchina grattò. "Haile Selassie Avenue".

La Liberation Avenue aveva quattro corsie, una manciata di Mini Morris e di Maggiolini d'epoca sbuffavano avanti e indietro con il contegno di carrozze trainate dai cavalli. La strada era dominata dalla torre gotica della cattedrale e dall'angelo di bronzo in cima alla cupola ricavato dalla fusione dei cannoni austriaci catturati dagli italiani durante la Grande Guerra. Sotto la sfilza di finestre chiuse, il traffico era ordinato e tranquillo. Nelle ore di punta c'erano almeno venti macchine. Un ingorgo della circolazione diventava una notizia di rilevanza nazionale.

L'autista fece dei cenni con la mano e poi mi condusse giù per una strada delimitata dalle residenze svizzere. Riuscivo a vedere quanti sforzi avessero fatto gli italiani nella loro piccola capitale africana. Percorse un'altra strada con delle ville, una diversa dall'altra, con fontane e statue e bassorilievi sulle pareti, e poi all'improvviso si fermò per parcheggiare.

"Africa Pensione" annunciò.

Salii sugli scalini di marmo; superai la statua di Cesare sull'aiuola anteriore che con il suo braccio togato dava una "spazzata" magnanima; e spinsi le porte di vetro per entrare." 

 

Da "Ciao Asmara" di Justin Hill, FBE Edizioni, 2005, pagg. 11-12

 

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